Immaginate un Paese diviso in due aree geografiche: da una parte il Nord, dall’altra il Sud. Fingiamo che in questo Paese si disputino due campionati di calcio: quello del Nord, appunto, e quello del Sud. A Nord, però, si gioca con le regole del fuorigioco, dei calci di rigore e dei falli di mano; al Sud senza quelle tre regole. Ora, un bel giorno capita che si inizi a discutere di come unificare i due campionati: “Facciamo così, adottiamo quella norma lì, no meglio quest’altra, ecc. ecc”. Poi si decide, unilateralmente, con un vero e proprio colpo di mano, che, sì, l’unificazione va fatta, ma secondo le regole in vigore al Nord. Per la serie: si fa così, punto.
Morale della favola: nasce un solo campionato unificato e si gioca con il fuorigioco, i penalty e la regola del fallo di mano. Secondo voi, alla prima stagione di questo nuovo torneo, chi pensate sia favorito: le squadre un tempo iscritte al Nord, abituate a giocare con quelle tre regole, o le squadre del vecchio campionato del Sud, aduse a fare a meno di offside, rigori e falli di mano? Chiaro: le squadre del Nord. E così comincia la nuova stagione.
Il finale è già scritto. Vincono – facile – le compagini del Nord e i team del Sud le buscano (qualcuno retrocede pure) di brutto sancendo, in tal modo una prima, profonda spaccatura all’interno di un torneo calcistico a “trazione settentrionale”. Una spaccatura, si badi bene, destinata a ripercuotersi anche sul futuro prosieguo del neonato campionato unitario perché, nel mentre le formazioni meridionali si abituano, arrancando, al rispetto delle nuove regole (incassando valanghe di gol!), quelle del Nord hanno, nel frattempo, già spiccato il volo, mettendo in cascina scudetti e partecipazioni alle coppe europee, affinando, progressivamente il loro bel gioco, ed incassando soldi, fama e…prestigio internazionale.
Il tempo trascorre. Mano a mano che le stagioni vanno avanti, è chiaro che, essendo, per così dire, partite in vantaggio, le vecchie squadre del Nord si troveranno sempre almeno due passi avanti rispetto alle loro consorelle del Sud. Ebbene, in questo contesto, i campioni che pure nascono e crescono al Sud, in quale squadra volete che sognino di andare a giocare, una volta diventati grandi: in quelle (ricche) plurivincenti del Nord o in quelle (pezzenti) relegate alla lotta per non retrocedere del Sud? Ma è evidente! Nei top team del pluridecorato e danaroso Nord! E così, anno dopo anno, il divario si accentua. D’altronde, se i migliori talenti del Meridione continuano ad andarsene a giocare altrove, come volete che si colmi mai questo gap?
Scontata l’antifona: da una parte ci sono i forti, quelli che continuano a rafforzarsi ed a vincere, dall’altra i deboli, che, di converso, continuano a perdere pezzi (e partite) ed a sprofondare nell’abisso dell’indigenza, vanamente protesi nella rincorsa impossibile alle parti alte della classifica.

Un bel giorno i vertici del campionato unitario decidono che, sì, è giunto il momento di rinnovare, di investire per costruire nuovi stadi, nuovi manti erbosi, nuove palestre ecc ecc. Perché, cavolo! Siamo pur sempre un campionato di spicco, di quelli con squadre che partecipano alle coppe europee! Come ci presentiamo nella vetrina della Champions se poi non abbiamo impianti degni di questo nome, di quelli, per capirci, che danno lustro al Paese? Ed allora ecco stanziati tot milioni: una parte va al Nord, dove, nel frattempo, grazie agli sponsor ed ai soldi intascati per aver vinto titoli e coppe, i club hanno già tutto e dove quel finanziamento viene effettivamente speso per costruire nuovi e più avveniristici stadi; un’altra al Sud, dove al massimo quei fondi vengono spesi per…pagare stipendi ai calciatori ed acquistare palloni e/o completini di cui si avverte drammaticamente la penuria. Morale della favola: infrastrutture ed impianti luccicanti vengono edificati al Nord mentre al Sud, i soldi finiscono “prosciugati” e dispersi in mille rivoli. La differenza? Manco a dirlo, continua a marcarsi. Sempre più drasticamente, sancendo un taglio netto tra le due vecchie aree sportive del Paese: una linea di demarcazione quasi sanguinaria. Fino a quando qualcuno non si sveglierà e dirà: “Oibò, ma esiste una…questione meridionale, bisogna fare qualcosa per ridurre questa differenza”. Eh sì, cari amici. Più facile a dirsi che a farsi quando, ormai, la frittata è stata fatta ed è ormai troppo tardi per rimediare!! Ecco, potremmo andare avanti all’infinito con questo racconto “para-calcistico”. Ma fuor di metafora e chiedendo scusa non una ma centomila volte per l’azzardato paragone, il nostro Paese è nato, grosso modo (anche) così, in quel lontano mese di marzo del 1861. Con regole, norme e leggi imposte da uno Stato (quello Sabaudo) ad un altro Stato, il Regno delle Due Sicilie (ma non solo quello), annesso dopo una guerra di conquista ed occupazione. A partire, se vogliamo, dalla denominazione assunta dal primo re dell’Italia unita, Vittorio Emanuele II di Savoia che, in continuità con il suo casato, volle mantenere quel “II” nel titolo, quando avrebbe tranquillamente potuto rinunciarvi, assumendo magari, anche nella numerazione, il titolo di “I” e al posto del casato piemontese, quello d’Italia. Non sarebbe stato meglio, per il “re galantuomo”, chiamarsi Vittorio Emanuele I re d’Italia e ripartire da zero? Nossignore. Da un punto di vista istituzionale ma anche giuridico, il neonato Regno non faceva altro che dare continuità a quello vecchio, assumendo la struttura e le norme già in vigore in quello di Sardegna: esso, nei fatti, non era altri che un Regno di Sardegna… allargato a tutti i nuovi territori conquistati, diventando, in sostanza, una monarchia costituzionale secondo la lettera dello Statuto Albertino del 1848. L’Italia, dunque, nasceva piemontesizzata. Un po’ come i due campionati uniti: a patto e a condizione di poter giocare esclusivamente con le regole in vigore in uno solo dei due tornei, senza badare alle esigenze ed alle abitudini dei nuovi sudditi. Con tutte le conseguenze che, inevitabilmente, questo avrebbe comportato su di loro.
Parliamoci chiaro: ancora oggi si parla di questione meridionale, di differenze abissali, in campo economico e sociale, tra le due aree geografiche dello Stivale, ma mai nessuno si è posto veramente la domanda del “come ci siamo arrivati” e del perché, in questi 160 anni di unità nazionale, non si sia fatto realmente nulla per colmare quel divario, o, ancora, del perché si sia partiti proprio con quel gap.
Se avete bisogno di esempi della partenza ad handicap del processo di unità nazionale, di prove concrete di come le esigenze del Sud siano state, spesso, sacrificate rispetto a quelle di un’altra parte del Paese, basta sfogliare i libri di storia.
Pensate, per capirci, al cavalier Raffaele Rubattino. Quando Garibaldi, per imbarcare i suoi Mille, gli “rubò”, con la complicità di Giovanni Battista Fauché, due vapori (Fauché era il direttore amministrativo della compagnia di navigazione di Rubattino), l’armatore genovese non stava attraversando un buon periodo. Anzi, era ridotto praticamente sul lastrico. Indebitato con le banche, costretto a vendere buona parte delle sue proprietà immobiliari per onorare le scadenze, l’imprenditore ligure si trovava a un passo dal fallimento. Tuttavia, il raid del nizzardo andò come tutti sappiamo. La Sicilia fu conquistata, Napoli pure. Infine l’intero Regno delle Due Sicilie finì in bocca al Piemonte. Risultato: grazie all’intercessione di Garibaldi e Nino Bixio il buon Rubattino riuscì non solo ad assurgere al ruolo di patriota, avendo fornito, pur sempre lui le navi per l’impresa dei Mille, ma anzi, ottenne pure un buon indennizzo che gli consentì di pagare un terzo dei debiti della società. Come se non bastasse, ad Unità avvenuta, il nostro si ritrovò padrone indiscusso di quelle che, fino a quel momento, erano state le rotte servite dalle navi della compagnia di “Navigazione a Vapore del Regno delle Due Sicilie”, al tempo, la più grande d’Italia insieme al Lloyd triestino (allora parte dell’impero asburgico), posta ingloriosamente in liquidazione nel 1865. Un bel modo per “indennizzare” chi aveva “investito” nell’unità del Paese, non trovate? E come pensate sia andata a finire con l’ex regio opificio borbonico di Pietrarsa (Portici), allora autentico colosso della metalmeccanica, smantellato e ridimensionato dal neonato Regno italo-sabaudo, a tutto vantaggio dell’industria settentrionale ed, in particolare, dell’Ansaldo di Genova? Scioperi e proteste non mancarono. Ma furono stroncati dai bersaglieri che, il 6 agosto del 1863, inviati a Portici per bloccare la manifestazione degli operai che chiedevano la tutela dei posti di lavoro, spararono sulla folla uccidendo sette persone e ferendone più di venti. Potremmo parlare anche delle “reali ferriere ed Officine di Mongiana”, le celebri acciaierie calabresi, vanto ed orgoglio della siderurgia non solo meridionale, ma addirittura europea, messe in secondo piano dal neonato governo sabaudo, assegnate all’asta all’ex garibaldino Achille Fazzari (futuro parlamentare) ed infine chiuse per sempre, a pochi anni dalla dichiarazione dell’unità, sacrificate a favore di una nuova acciaieria costruita a Terni, dove i macchinari di Mongiana vennero fusi. E potremmo andare avanti con altri decine di esempi simili a questi dove è sempre una sola parte del Paese che paga dazio per favorire chi, magari, per la conquista del Sud, ci ha rimesso soldi, armi, vapori e cannoni!
Per anni anti-borbonici, filo-sabaudi e sostenitori della causa unitaria ad oltranza, hanno dibattuto sulla necessità che il Mezzogiorno d’Italia fosse “liberato” dalla tirannia dei Borbone, che questo spicchio di Stivale fosse “strappato” all’oscurità quasi di stampo medievale in cui gli antenati di Franceschiello lo avevano trascinato. Per anni si è parlato dell’analfabetismo diffuso nelle regioni del Regno delle Due Sicilie, della mancanza quasi cronica di strade e ferrovie nel vecchio reame fondato da Ruggiero il Normanno, dell’arretratezza di un Paese in cui i contadini erano ridotti quasi alla stregua di nuovi servi della gleba e dove anche il solo trasferirsi da un villaggio all’altro, nascondeva insidie talvolta mortali per gli ignari viaggiatori costretti a fare i conti con fameliche bande di briganti (come se il “passator cortese” fosse nato e cresciuto all’ombra del Vesuvio). Insomma, si è voluto dipingere un quadro a tinte oscure, quasi infernali, del Regno di Napoli e delle Due Sicilie, come a volerne per questo giustificare e legittimare l’inevitabile e quasi “liberatrice” conquista da parte delle armate piemontesi, giunte a Sud del Garigliano per dispensare la civiltà. Facciamo finta che le cose siano realmente andate così: se veramente il Sud stava ’nguaiato, per dirla alla napoletana, ed è stato, dunque, annesso per essere redento e liberato, come mai a distanza di 160 anni siamo ancora al punto di partenza? Non c’erano strade e ferrovie nel 1861? Vero. Domanda: ma nell’anno del Signore 2021 quante autostrade ci sono al Sud e quante al Nord? Quante città sono servite, oggi, dall’Alta Velocità al Nord e quante invece al Sud? Quante linee ferroviarie e strade degne di questo nome sono state realizzate al Sud dal 1861 ad oggi e quante al di là del Garigliano?
Si fa un gran parlare del ponte sullo Stretto. Si dice che sarebbe uno spreco di risorse, perché prima di pensare ad una macro-struttura come quella in grado di unire Reggio Calabria e Messina, bisognerebbe prima dotare di infrastrutture basilari il resto del Mezzogiorno. Tutto giusto, per carità. Ma di ponte sullo Stretto si discute da inizio ‘900: dove stanno tutte queste benedette “infrastrutture” di cui tanto si parla e perché in 160 anni ne sono state realizzate così poche nella parte bassa dello Stivale? Possibile che l’allargamento della Salerno-Reggio Calabria rappresenti, ancora oggi, uno degli emblemi storici dell’eterna incompiuta? E perché, ancora in pieno terzo millennio, tanti nostri “campioni” preferiscono emigrare al Nord, subito dopo la laurea, invece di rimanere a giocare per le “squadre” del loro amato Sud?
Si fa un gran parlare – giustamente (!) – di mafia e malaffare, camorra e ‘ndrangheta, trattandole però come se fossero piaghe endemiche del Meridione, quasi tipiche di un certo modo di vivere dei “terroni”, un loro prodotto esclusivo, insomma, dimenticando però che “piaghe” come la terra dei fuochi (o dovremmo dire le “terre dei fuochi”, visto che il fenomeno è esteso a tutto il Paese) sono nate a causa del patto scellerato stretto tra imprenditori disonesti del Nord e malavitosi del Sud per lo smaltimento illecito degli scarti industriali prodotti al Settentrione? Ancora, perché fare finta di non sapere che se la malavita, nel dopoguerra, ha fatto il suo triste salto di qualità nel Mezzogiorno dello Stivale, è solo perché lì ha trovato terreno fertile su cui attecchire facendo leva sui bisogni, sulla fame di lavoro e sulla povertà di larghi strati della popolazione sempre più abbandonati a se stessi? E’ in questi contesti, complice l’assenza dello Stato, che i clan hanno potuto armare, indisturbati i loro eserciti. Ed è in quei contesti che le cosche hanno seminato e raccolto a piene mani. Ma di chi è stata la colpa? Di chi la responsabilità? Solo dei meridionali o anche di chi ha lasciato che il divario si accentuasse e si allargasse a dismisura, di chi ha lasciato che le regole del campionato del Nord sopravanzassero quelle del Sud, di chi ha fatto in modo che gli investimenti fruttassero al Nord trasformandosi, invece, in mera ed infruttuosa assistenza al Sud (dove c’era poco su cui investire); di chi nulla ha fatto per impedire che i migliori talenti del Meridione lasciassero le loro case, andando ad arricchire l’economia del Nord? Mai nessuno si è chiesto, prima di parlare, prima di sputare sentenze, talvolta anche di stampo razzista, su napoletani, siciliani, pugliesi, lucani e calabresi, di chi è stata la colpa, 160 anni fa, di un’unità nazionale nata male, cresciuta peggio e mai realmente decollata?