Tra i contenuti delle chat l’incriminazione dell’ex Presidente del Brasile Lula
Una bomba mediatica si abbatte su “Lava Jato”, la più grande inchiesta sulla corruzione in Brasile, che rischia di essere inquinata da un rapporto di dipendenza e di guida tra il pool dei pm e il giudice che avrebbe dovuto approvare o respingere le loro richieste. Ne risulta scalfita l’obiettività e soprattutto l’imparzialità di un processo che ha scosso in profondità le istituzioni brasiliane, scoperchiato un sistema di tangenti che intossica l’industria e il mondo della politica, avviato un processo di rivolta, portato all’impeachment di una presidente eletta democraticamente, condotto all’incriminazione e poi all’arresto del padre della sinistra del Brasile definito, in una conferenza piena di numeri, grafici, linee e caselle tutti mostrati in un power point, il “capo di un’organizzazione criminale”. Merito della stampa se questa palese violazione quantomeno etica, se non proprio costituzionale, esce allo scoperto. The Interceptor, quotidiano on line di giornalismo investigativo, mette in rete decine di screenshot con lo scambio di messaggi sulla messaggeria protetta Telegram tra l’allora giudice Sergio Moro, oggi nominato ministro della Giustizia del governo Bolsonaro, e il capo dei sostituti procuratori di Lava Jato, Deltana Dallagnol.
La sequenza temporale dei colloqui scritti è inquietante. Si intensificano alla vigilia di incriminazioni e arresti importanti. Moro all’inizio è cauto ma con il passare delle settimane diventa sempre più invasivo. Chiede e spinge sui colleghi della Procura a battere alcuni filoni di indagini piuttosto che altri, a scegliere quali siano i momenti migliori per emettere certi provvedimenti. Dallagnol risponde e spesso esegue. I due valutano le conseguenze di alcune azioni. Si concordano le mosse per evitare reazioni delle parti coinvolte. Dialoghi brevi, frasi criptiche che trovano però immediata applicazione nelle fasi dell’inchiesta. Fino a uno tra i più clamorosi casi: quello che portò all’incriminazione di Lula per l’attico di Guarujá che gli è costata una condanna a 12 anni e 1 mese di carcere. Il 7 dicembre 2015, Moro scrive a Dallagnol: “Una fonte mi ha informato che la persona di contatto sarebbe stata infastidita dal fatto di essere stata invitata a redigere bozze per il trasferimento di proprietà di uno dei figli dell’ex presidente. La persona credo sia disposta a fornire informazioni. Sto andando avanti. La fonte è seria”. “Grazie!!”, gli risponde il procuratore, “ci metteremo in contatto”. “E sarebbero dozzine di immobili”, replica quasi entusiasta Moro.
La fonte alla fine non vuole parlare. I pm pensano alla possibilità di un esposto anonimo per giustificare la convocazione di Lula per un interrogatorio. Moro potrebbe respingere la proposta o tacere. Fa di più. Appoggia la soluzione: “Meglio formalizzare”, suggerisce. La piena collaborazione tra accusa e giudice terzo si intensifica il 13 marzo del 2016 quando la piazza invoca la destituzione della Rousseff. Moro scrive a Dallagnol: “Il Congresso va ripulito”. Dallagnol replica: “Congratulazioni per l’enorme supporto pubblico”. Moro: “Ho fatto una dichiarazione ufficiale. Congratulazioni a tutti noi”. Infine, la decisione che destò all’epoca più scalpore. Uno sgarbo al limite della legalità. Il giudice Moro decide di rendere pubblica la telefonata, coperta dal segreto dell’indagine, in cui la Rousseff propone a Lula di nominarlo ministro della Casa Civile – carica che in Brasile corrisponde più o meno a quella di primo ministro – e metterlo quindi al riparo da un possibile arresto. Dallagnol chiede: “La decisione di renderla pubblica è confermata?”. Moro si cautela: “Qual è la posizione della Polizia federale?”. Dallagnol risponde: “Metterla in rete”. Scoppia la tempesta, sei giorni dopo il tema è di nuovo al centro dello scambio di chat su Telegram.