La morte arrivò marciando con il passo dei fanti, il fragore degli ordini urlati in una lingua sconosciuta, la sorda detonazione degli spari. Sullo sfondo: il chiocciare assordante dei pollai devastati, lo scoppiettio dei roghi che riducevano in cenere muri, travi e persone. E poi: le grida di terrore. Uomini, donne, bambini. Caos misto a stupore. Polvere, disperazione, sangue, paura. No, non stiamo parlando di una delle tanti, terribili stragi compiute dai nazisti nel corso dell’ultima guerra mondiale. Stavolta i tedeschi non c’entrano. Scordatevi Marzabotto e Boves e fissatevi nella mente questi due nomi: Casalduni e Pontedalandolfo.
L’OROLOGIO DELLA STORIA
L’orologio della storia ci porta indietro di 162 anni quando l’Italia unita, quella che più o meno conosciamo oggi, aveva appena visto la luce. Ecco, se potessimo imbarcarci su una macchina del tempo con il quadrante retrodatato all’agosto del 1861, probabilmente in tanti cambieremmo (radicalmente) idea sui fatti che abbiamo appreso leggendo, sui testi scolastici, il capitolo dedicato alla cosiddetta “epopea del Risorgimento“. In quel mese di agosto del 1861, infatti, i cosiddetti “liberatori”, giunti nel Mezzogiorno dello Stivale per “affrancarlo” dalla tirannia borbonica, si accanirono sulla povera gente di quei piccoli borghi del Sannio, colpendola lì, nelle loro case, in mezzo alla strada, nei fienili ed in qualunque altro posto essa si trovasse.
L’ORDINE DEL GENERALE CIALDINI
Sissignore, avete letto bene: centosessantadue anni fa gli abitanti di questi semisconosciuti (allora) villaggi del Matese, furono costretti a fare i conti con la ferocia dei soldati del colonnello Pier Eleonoro Negri e del maggiore Carlo Melegari, a loro volta guidati dal generale Maurizio De Sonnaz, che avevano ricevuto l’ordine dal “gran capo” in persona, il generale Enrico Cialdini (in quell’epoca governatore delle province meridionali del neonato Stato unitario), di non lasciare pietra su pietra delle loro abitazioni.
PERCHE’ TANTA FURIA GRATUITA?
Ma perché tanta furia apparentemente gratuita? Semplice: gli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni si erano trovati al centro di uno scontro tra un nutrito manipolo di briganti – così erano etichettati allora gli “sbandati” che si battevano per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie – e un drappello composto da una quarantina di uomini dell’esercito piemontese, guidato dal tenente Augusto Bracci, spedito in quelle valli proprio per provare ad intercettare quella schiera di “malfattori”.
SULLE TRACCE DEI BRIGANTI
La gente di Casalduni e Pontelandolfo, per dirla con altre parole, fu punita perché ritenuta complice dei “ribelli”. Attaccata per vendetta, ma anche per dare una lezione esemplare a quanti ancora esitavano ad accettare il passaggio di consegne dai Borbone ai re di casa Savoia. I fanti di Bracci, come detto, erano stati inviati in quel luogo in ricognizione, così da avere conferma e informazioni sull’attività rivoltosa di una banda, quella comandata dal temutissimo “fra’ diavolo”, al secolo Cosimo Giordano.
IL RAID DI GIORDANO
Costui, appena pochi giorni prima (per l’esattezza: il 7 agosto), in quello stesso paesino del Beneventano, annunciando il ritorno di Francesco II sul trono di Napoli, aveva depredato alcune case ed accoppato due inermi cittadini. Nel giro di pochi giorni si era diffusa la voce che tutta l’area del Matese stesse insorgendo contro l’occupante sabaudo. Insomma: bisognava fare presto e domare la rivolta prima che questa potesse dilagare a macchia d’olio.
UNA DISPERATA SORTITA
Secondo una sommaria ricostruzione, l’11 agosto del 1861 la colonna del tenente Bracci fu intercettata in pieno centro, a Pontelandolfo, proprio dai briganti ai quali stava dando la caccia e lì venne presa a schioppettate. Inseguiti, i soldati furono costretti a rifugiarsi nell’ex torre baronale del paese. Accerchiati e a corto di munizioni, tentarono allora una disperata sortita fuggendo in direzione della vicina Casalduni: per loro, però, fu come cadere dalla padella nella brace. Nella fuga, infatti, incapparono in una seconda banda, guidata da un altro “capo popolo”, Angelo Pica, proveniente da San Lupo.
CATTURATI, DISARMATI E UCCISI
Catturati e disarmati, i militari furono sommariamente processati e quindi giustiziati, si dice, in Largo Spinelle a Casalduni. Ora, come ed in che modo quei poveracci – si trattava di bersaglieri, ma anche di rinforzi “locali” della guardia nazionale e di qualche carabiniere – furono “fatti fuori” dai rivoltosi, rimane, ancora oggi, oggetto di studio e di accesa controversia.
MORTI DOPO ORRIBILI TORTURE?
Furono “regolarmente” – si fa per dire – battuti in uno scontro a fuoco e poi accoppati, senza troppi complimenti, dopo che avevano deposto le armi? Oppure, peggio ancora, subìrono atroci torture prima di andare incontro alla morte? Ci sono due teorie al riguardo. La prima vuole che gli sventurati soldati del luogotenente Bracci, una volta acciuffati e ridotti all’impotenza, andassero incontro a non poche, indicibili sevizie. Si narra addirittura che il loro comandante fosse prima torturato a lungo (per circa 8 ore!) e poi solo successivamente barbaramente lapidato, e che la sua testa, spiccata dal corpo, finisse infilzata su una croce e posta nella chiesa di Pontelandolfo. Sorte analoga sarebbe toccata a tutto il suo reparto, con militari eliminati a colpi di ascia, di mazza oppure massacrati sotto gli zoccoli dei cavalli. Insomma: una fine orrenda e a dir poco bestiale.
CATTURATI E PASSATI PER LE ARMI
La seconda versione, risalente al 1867 ed accreditata dallo storico casertano Giacinto de’ Sivo, ex alto funzionario del Regno delle Due Sicilie, è meno cruenta e parla invece di un vero e proprio scontro sviluppatosi tra le “divise” di Bracci e i ribelli di fede duosiciliana. Bersagliati dalle fucilate dei “legittimisti”, i militari, forse malamente guidati dal loro tenente, dopo la corsa disperata dalla torre di Pontelandolfo in direzione di Casalduni, sarebbero incappati in uno sbarramento stradale allestito, nel frattempo, dagli uomini di Pica i quali stavano sopraggiungendo evidentemente per dare man forte ai fedelissimi di “fra’ diavolo”. Bracci e i suoi si sarebbero così trovati fra due fuochi: da una parte la banda Giordano, dall’altra quella di Pica. Alcuni, tra loro, caddero sul campo; gli altri alzarono le mani e, una volta presi prigionieri, furono tutti messi al muro e fucilati. Tutti meno uno.
IL RACCONTO DEL SOPRAVVISUTO
Un sergente del reparto, infatti, riuscito miracolosamente a salvarsi, una volta raggiunta Benevento, informò immediatamente i suoi superiori del sanguinoso episodio. Le autorità, a loro volta, ne diedero pronta contezza al generale Cialdini al quale fu trasmesso un rapporto con una descrizione raccapricciante e dettagliata dell’agguato. Consultandosi con altri alti ufficiali, il governatore, a quel punto, avrebbe ordinato la rappresaglia immediata, predisponendo il blitz contro Pontelandolfo e Casalduni, per punire quanti avevano preso parte all’eccidio, schierandosi compatti al fianco dei rivoltosi. Dunque si doveva far pagare a caro prezzo quell’alto di grave infedeltà.
LA RAPPRESAGLIA HA INIZIO
All’alba del 14 agosto, ai piedi del Matese fu spedito un più grosso e nutrito battaglione composto da 500 bersaglieri e mercenari comandati dagli ufficiali Negri e Melegari i quali, coordinati dal generale De Sonnaz, eseguirono alla lettera gli ordini di Cialdini. Ora, volendo dare retta alle ricostruzioni dell’accaduto di parte neoborbonica e anti-risorgimentale, per primo, quel giorno, sarebbe toccata a Casalduni dove i sabaudi, guidati da Melegari, piombarono come ossessi. La furia dei vendicatori sarebbe stata terribile e non avrebbe guardato in faccia a nessuno. Nemmeno ai parroci.
CASE E CHIESE SACCHEGGIATE
Case e chiese sarebbero state saccheggiate e poi date alle fiamme. Sentendo gli spari e le grida dei soldati, chi era rimasto in paese avrebbe provato a scappare verso la vicina montagna trovando, tuttavia, la morte, lì, in strada oppure sull’uscio di casa, infilzato dal ferro delle baionette oppure crivellato dal piombo dei proiettili.
SANGUE E MORTE A PONTELANDOLFO
A quanto pare – sembra un paradosso – i casaldunesi, alla fine, sarebbero stati per così dire, più…”fortunati”: la maggior parte di loro, infatti, probabilmente avvisata da qualche informatore dell’imminente arrivo dei “vendicatori”, sarebbe riuscita a mettersi in salvo prima che si scatenasse l’inferno. A Pontelandolfo invece, i fatti avrebbero preso ben altra piega! Sempre secondo quei racconti, si dice che, sorpresi nel sonno dal gruppo Negri e praticamente impossibilitati a fuggire, la maggior parte degli abitanti di quel paese non ebbe via di scampo e che in molti sarebbero periti all’interno delle loro abitazioni, arsi vivi dal fuoco appiccato dai “piemontesi”. Il resto fu eliminato senza pietà. Anche in questo caso, nessuno sarebbe stato risparmiato dalla ferocia della soldataglia. Uomini, donne, bambini.
UNA TESTIMONIANZA ATROCE
Ora, si badi bene: il racconto di quanto accaduto in quel terribile 14 agosto del 1861, non è arrivato fino a noi grazie ai ricordi sbiaditi di qualche irriducibile brigante di fede borbonica. O per meglio dire: non ci sono solo i racconti di parte anti-unionista a tracciare un quadro negativo di quei fatti. A “parlare” furono, direttamente, anche (e non solo) alcuni dei testimoni oculari del raid. Carlo Margolfo, classe 1837, ad esempio, fu uno dei soldati che prese parte alla spedizione. Costui, nel suo diario, raccontò con dovizia di particolari, tutte le atrocità commesse a Casalduni e Pontelandolfo: “Non si poteva stare d’intorno per il gran calore; e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava” scriveva l’ufficiale.
QUANTE FURONO LE VITTIME?
Insomma: se oggi sappiamo cosa combinarono quei fanti ai piedi del Matese, lo dobbiamo anche a loro. Rimane semmai, ancora oggi, aperto il dibattito su quante furono effettivamente le vittime e se si sia trattata realmente di una spietata rappresaglia oppure di una…normale operazione di “pubblica sicurezza“.
LA STORIOGRAFIA RECENTE
A voler dar retta alla recente storiografia, i civili uccisi sarebbero stati meno di una ventina: 17, forse 14 o addirittura 13. Tutti a Pontelandolfo e nessuno a Casalduni. Tale numero sarebbe stato appurato in base a una ricerca documentaria effettuata (nel 2000) da un valente ricercatore sannita, padre Davide Fernando Panella, fondata sulla lettura dei registri parrocchiali della chiesa della Santissima Annunziata.
LA LETTERA DI CATERINA LOMBARDI
Di “13 vittime” parla anche una lettera inedita, datata 3 settembre 1861, scritta da Carolina Lombardi, originaria di Pontelandolfo e indirizzata allo zio, don Angelo Lombardi, parroco di Sant’Agostino in Roma. Di tale missiva, ritrovata nel 2011 dallo storico Annibale Laudato e pubblicata sulla rivista “Frammenti” del Centro culturale per lo studio della civiltà contadina nel Sannio di Campolattaro, dà notizia lo storico vesuviano Giancristiano Desiderio sul portale SannioPress.
LA TESTIMONIANZA DEL TENENTE
Secondo altre fonti (non solo quelle di parte borbonica, ovviamente), i morti sarebbero stati, invece, molti di più. Si parla di decine di vittime se non centinaia, soprattutto a Pontelandolfo che, all’epoca dei fatti, contava 4.500 abitanti. Oggettivamente: sembra difficile che la furia violenta di 500 soldati scatenati e decisi a vendicare, costi quel che costi, l’orribile morte dei loro commilitoni, abbia finito con il provocare “solo” una decina di vittime. A suffragare questa tesi ci sarebbe anche il racconto di un tale tenente Mancini che, di ritorno da quel borgo del Beneventano, essendo tenuto a rapporto dal maggiore Melegari, gli disse: “Ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina!“.
UN RACCONTO GONFIATO?
Chissà. Magari esagerava, magari gonfiava le cifre per fare bella figura davanti al suo superiore. Ma esagerava anche Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, quando, nel descrivere il raid di Pontelandolfo, scriveva: “(…) I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gl’impauriti reazionari dell’ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette di scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati di prendere ogni spece di strame per incendiare con quello le loro stesse catapecchie. Questa scena di terrore guerresco durò una intiera giornata; il gastigo fu tremendo ma fu più tremenda la colpa (…)”.
IL CASO ARRIVA IN PARLAMENTO
E che dire, ancora, del discorso strappalacrime (“La questione romana e le condizioni delle province meridionali“) pronunciato il 2 dicembre del 1861 dal deputato Giuseppe Ferrari alla Camera dei Deputati? Quello del filosofo milanese fu un vero e proprio atto d’accusa contro la gestione della repressione del brigantaggio, da parte dell’esercito del neonato governo italiano. “Non potevo sapere come Pontelandolfo, città di cinquemila abitanti, fosse trattata” disse Ferrari. “Ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare i fatti con gli occhi miei. Mai potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata… vie abbandonate, a destra e sinistra le case erano vuote e annerite: si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti“.
COSI’ L’ITALIA S’E’ DESTA?
Davvero così poche persone persero la vita tra Casalduni e Pontelandolfo? Tutto può essere, per carità! Nessuno vuole negarlo per forza. Anzi: lo testimoniano le documentatissime ricerche citate in precedenza. Le “carte”, si sa, in storia, parlano. Ma pacificamente può anche essere che gli incendi appiccati qua e là abbiano distrutto altri registri parrocchiali rendendo, di fatto, impossibile una più accurata conta delle vittime. Che poi, diciamocela tutta: siamo davvero sicuri che il vero problema sia appurare il numero esatto dei caduti di quel tragico giorno? Per dirla con le parole dello storico Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento Neoborbonico, in un’intervista di qualche anno fa: “quello che sorprende è che nonostante lo Stato Italiano abbia presentato ufficialmente le sue scuse per quei tragici avvenimenti (accadde nell’agosto del 2011, con il governo Amato, ndr) l’eccidio di Pontelandolfo e di Casalduni” continua “ad essere al centro di dibattiti e di polemiche a causa di una (…) parte della storiografia ufficiale che si ostina a parlare di poche vittime tra i civili“.
COSI’ L’ITALIA S’E’ DESTA?
Già. Come quando, qualche anno fa, qualcuno ha provato assurdamente ad aprire il dibattito su quante siano state realmente le vittime dei lager nazisti nell’ultima guerra mondiale. Come se 100 o 100mila morti in più o in meno, potessero togliere o aggiungere ulteriore “sconcia ferocia” all’immane crudeltà della Shoah. Scusate: ma che differenza fa dire che i morti furono 13, oppure cento o addirittura mille. Che significa? Che differenza fa dire che non fu rappresaglia a Casalduni e Pontelandolfo, ma semplice…operazione di pubblica sicurezza? Anche un solo morto innocente rappresenta una vergogna assoluta per la storia di un Paese, il nostro, che per decenni ha fatto dell’amor di patria e del celebre ritornello dell’inno nazionale il proprio “collante” universale. Altro che “Italia s’è desta” ed “elmo di Scipio”!!
NON CHIAMATELI BRIGANTI
Pontelandolfo e Casalduni, ancora oggi, invocano verità e possibilmente una ricostruzione storica dei fatti che tenga realmente conto di quello che realmente le genti di quei borghi patirono nell’estate di 162 anni fa. Non perché si voglia restaurare, in qualche modo anacronistico, il giglio dei Borbone sul trono di Partenope (per ironia della sorte a Pontelandolfo due fratelli Rinaldi, uno avvocato e l’altro negoziante, entrambi unionisti convinti, usciti di casa per andare incontro ai piemontesi, furono scambiati per ribelli e abbattuti sul posto), ma solo per rendere effettivamente giustizia a chi, quel giorno, perse la propria vita senza avere alcuna colpa, finendo in bella evidenza, nell’elenco degli infamati (ingiustamente) con l’etichetta di “brigante”.