50 milioni gli sfollati nel mondo, il più alto di sempre
Il numero di sfollati interni, le persone costrette ad abbandonare le proprie case ma che non varcano i confini nazionali, ha superato la cifra record di 50 milioni nel mondo. Il più alto di sempre. A lanciare l’allarme è il report annuale sugli spostamenti forzati dell’Internal Displacement Monitoring Center (Idmc) di Ginevra, citato in un dossier dell’Ispi. Sebbene le regioni del mondo interessate dal fenomeno siano diverse, i tre quarti degli sfollati interni si trovano in appena 10 paesi (Siria, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Colombia, Afghanistan, Somalia, Nigeria, Sudan, Iraq ed Etiopia). Per loro, assiepati in campi informali spesso non organizzati, il distanziamento sociale richiesto dall’emergenza coronavirus, è praticamente impossibile. Ecco perché gli Internally displaced people (Idps) sono anche tra le persone più vulnerabili ed esposte alla crisi.
“La pandemia comprometterà le loro condizioni di vita già precarie – spiega Alexandra Bilak, direttrice del centro – limitando ulteriormente il loro accesso ai servizi essenziali e agli aiuti’’.
Gli Idps costituiscono la maggioranza di coloro che scappano dalle guerre, superando di gran lunga il numero dei profughi, persone sfollate cioè che cercano riparo all’estero, che nel 2019 erano circa 19,8 milioni. Secondo il rapporto, il 90% degli sfollati interni nel mondo (45,7 milioni) ha dovuto abbandonare la propria casa a causa di conflitti armati e violenze. Su un totale di 50 milioni e 800.000, circa 18 milioni sono bambini al di sotto dei 15 anni mentre 3,7 milioni sono persone over 60. A guidare la lista di paesi con un maggior numero di Idps sono la Siria (6 milioni e mezzo), la Colombia e Repubblica Democratica del Congo (5 milioni e mezzo ciascuna) e lo Yemen (3 milioni e mezzo). Il restante 10% degli sfollati interni è causato da disastri ambientali: l’Afghanistan è il paese con più sfollati interni a causa di fattori ambientali: la siccità, alternata ad alluvioni, ha costretto un milione e 200.000 persone a lasciare le proprie case nel corso degli ultimi due anni. Seconda l’India, con mezzo milione di sfollati, causati dai monsoni.
Il 2019 ha visto un’impennata degli spostamenti forzati interni: secondo l’Idmc si sono registrati infatti 33,4 milioni di nuovi sfollamenti. La cifra più alta dal 2012. Di questi, quasi 25 milioni milioni (il 74,5%) è dovuto a disastri ambientali e 8,5 (il 25,5%) a conflitti. Il dato non si riferisce al numero di persone sfollate tout court, ma a quante volte sono state sfollate. Ciò riflette il fatto che le persone possono essere sfollate più volte, da un luogo a un altro e poi a un altro ancora. L’Africa sub-sahariana si conferma la regione con il numero più alto di sfollati causati da conflitti. Molti nuovi spostamenti sono stati innescati da violenza crescente e un deterioramento della sicurezza nel Sahel, in particolare in Burkina Faso, Mali e Niger, e da conflitti di lunga data, come quello in Somalia e nel Sud Sudan. Ciò che rende gli sfollati interni diversi da quelli che normalmente consideriamo rifugiati è che, non avendo attraversato un confine, non sono coperti dalle convenzioni internazionali per i rifugiati. Rimangono soggetti alle leggi nazionali: una differenza cruciale quando fuggono da violenze causate dal governo del paese in cui vivono.
La pandemia di coronavirus sta ulteriormente frustrando gli sforzi per far fronte alla difficile situazione degli sfollati interni. Secondo l’edizione 2020 del Global Report on Food Crises, degli oltre 800 milioni di persone denutrite quasi un terzo, ovvero 250 milioni, rischia di soffrire la fame in maniera ancora più profonda. Molti sfollati vivono in una sorta di limbo, abbandonati dallo Stato e irraggiungibili per gli operatori umanitari. Mentre il mondo si trova a dover contrastare l’epidemia di coronavirus, abbandonarli a sé stessi diventa una questione di salute pubblica che coinvolge tutti, poiché comporta dei rischi anche per chi vive a centinaia di migliaia di chilometri di distanza. ”Il rischio invece è che l’arrivo della pandemia aggravi ulteriormente il problema – osserva infine Bilak – Se davvero stiamo precipitando verso una recessione questo avrà certamente un impatto sulla generosità dei donatori”. In un mondo interconnesso, sarebbe un disastro per tutti.