La “Medea” di Francesco Mastriani racconta la città di Napoli di fine Ottocento
Sul palcoscenico de Il Pozzo e il Pendolo Teatro di Napoli andrà in scena da sabato 2 febbraio, lo spettacolo “La Medea di Portamedina” di Francesco Mastriani. La storia, datata 1793, racconta Napoli, che non si limita a essere sfondo di due storie seducenti, ma diviene, essa stessa, protagonista della scena, dove la vita e la morte, l’amore e l’odio, legati indissolubilmente, disegnano i chiaroscuri e le eterne contraddizioni della città di Partenope. La Medea di Portamedina, che debutterà sabato in occasione del bicentenario dalla nascita di Francesco Mastriani, vedrà interpreti in scena Rosaria De Cicco, Marianita Carfora, Giuseppe Gavazzi, Peppe Romano, Alfredo Mundo, Paolo Rivera, Rita Ingegno, Martina Grimaldi, Flora Del Prete, Riccardo Maio, per la drammaturgia e la regia di Annamaria Russo.
Siamo al 19 maggio 1793, Coletta Esposito, una giovane popolana di via Portamedina, uccide la figlia di pochi mesi e getta il corpicino esanime sul sagrato della chiesa, dove si stanno celebrando le nozze dell’uomo che aveva promesso di sposare lei e non quella donna vestita di bianco che stringe sottobraccio. La donna, poco più che ventenne, assurge agli onori della cronaca per il suo terribile delitto, che richiama alla tragedia greca. La popolana dal nome oscuro è ribattezzata la Medea di Portamedina, e in quel soprannome la banalità del male acquista un accento epico.
Coletta Esposito, nell’immaginario del popolo napoletano, cessa di essere una donna per trasformarsi in una fiera snaturata. Non può esserci comprensione, compassione per un delitto che è un insulto all’amor materno. Calpestare il più sacro e intoccabile dei sentimenti, imponeva una condanna esemplare: non solo lo “strascinamento” e la decapitazione, ma l’ignominia nei secoli dei secoli. Così doveva essere e così è stato. I vicoli oscuri del dolore, del disincanto, delle illusioni tradite che avevano condotto Coletta Esposito fino alla piazza in cui era stato allestito il suo patibolo, nessuno ha voluto provare a percorrerli, nemmeno con l’immaginazione. I suoi vent’anni, massacrati da un destino spietato, scomparivano davanti al corpicino di una neonata soffocata dalle mani di chi l’aveva portata in grembo.
È dalla riprovazione collettiva, dall’indignazione che cancella la pietà, che ha preso le mosse il nostro lavoro.
La scrittura teatrale della tragedia di Portamedina nasce come reazione ad una domanda urticante: quante donne sottoposte allo strazio di una vita fatta di tribolazioni inimmaginabili avrebbero potuto trasformarsi in Medee? Non abbiamo provato a dare risposte, non esistono risposte per la disperazione che nasce dal sangue e si nutre di sangue. Esistono solo domande dolorose, strazianti che restano sospese sulla soglia dell’orrore e della compassione.