Una scrittura veloce quella del terzo romanzo di Di Biase, con un buonissimo ritmo, che coniuga -senza sbavature- il dialogo interiore del personaggio di matrice squisitamente speculativa ai toni appuntiti e caustici che riserva alle donne; al linguaggio scurrile che si veste di formalità se a parlare è l’avvocato De Chirico che riceve in studio i clienti, e si trasforma ancora, nel corso delle pagine, nelle poesie piuttosto malinconiche che il padre scrive alla sua Bea, quella Beatrice (in nomen omen?) che lui ha abbandonato per vivere la sua vita fuori da ogni schema sociale. Quella figlia con cui non riesce più a tessere una relazione mentre lei cresce e lui si mette alla prova ogni volta con una donna diversa, senza mai amare, senza mai far l’amore con loro. Semplicemente scopandosele.
Una tirata beffarda sul mondo delle donne che ripetono, dal tempo di Madre Eva, sempre le stesse dinamiche di coppia basate anche -ammettiamolo- sulla visibilità sociale del maschio e sulle sue disponibilità economiche. Alberto -il compagno di merende del protagonista, più che un amico- docet, con il suo ego smisurato e tirato a lucido quanto la sua Porsche.
C’è tanta verità nella descrizione che l’autore fa di questo Eterno Femminino 2.0; ma c’è anche la sincerità spietata di un maschio che si guarda allo specchio e comprende di non essere mai diventato uomo, poichè questo l’avrebbe fatto soffrire. Impegni, responsabilità, uno stile di vita accorto ed assennato sembra non facessero per lui. Eppure tutto il disincanto e l’ironico cinismo dell’avvocato non lo mettono al riparo dalla sofferenza nè dal dolore nè dal male che la Vita riserva ad ognuno. La Vita, però, concede sempre una seconda chance e quella dell’avvocato ha i colori di una donna dell’ Est, l’unica che saprà regalargli un’occasione di riscatto e di crescita.
Peccato, però, che Di Biase non ci lasci guardare dallo spioncino, per vedere e condividere con il protagonista anche questo cambiamento. De Chirico si mostra ai lettori per ciò che è, soffre d’ansia per i sensi di colpa, non per la consapevolezza di ciò che fa, non per un momento di salvifica vergogna. Chi, tra i lettori, ravviserà nel personaggio dell’avvocato il profilo di un amante, di un amico o di un collega incontrato nella Vita, potrà finalmente perdonarlo. Perchè l’uomo che viene identificato nell’arco di tutta la narrazione come lo stronzo è un perdente, costretto a convivere con un fondo di amarezza che neanche la Morte cancellerà in quelli che lo hanno conosciuto.