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“PANDEMIA” DISTURBI ALIMENTARI: OGNI ANNO COLPITE 3 MILIONI DI PERSONE, OLTRE 3.000 MORTI

Lo psicoterapeuta Federico Bianchi di Castelbianco: “Giovani affetti dai disturbi molto intelligenti e con grande sensibilità ma con un malessere di fondo”

I Disturbi del comportamento alimentare, come bulimia e anoressia nervosa, fanno una vera e propria strage: ogni anno muoiono 3.000 persone. E il trend vede crescere tra i soggetti coinvolti sempre più ragazzi. “Molto intelligenti e con grande sensibilità ma con un malessere di fondo, come un basso tono dell’umore o uno sfondo depressivo”. Queste le caratteristiche della maggioranza dei ragazzi con disturbi del comportamento alimentare (Dca), secondo lo psicoterapeuta dell’età evolutiva e direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), Federico Bianchi di Castelbianco.

Ad accendere i riflettori su dei disturbi che interessano circa 3 milioni di persone e mietono oltre 3.000 vittime all’anno, è stato il caso di Lorenzo Seminatore, ventenne torinese morto perché malato di anoressia. Spesso, ricorda Sabrina Mencarelli, esperta Dca, “questi disturbi vengono associati al genere femminile”, motivo per cui “il disturbo alimentare maschile non è facilmente individuabile”. Non è un caso, infatti, che gli ultimi dati del ministero della Salute indichino bulimia e anoressia come piaghe comuni soprattutto tra le donne. “Negli ultimi anni, però- si ricorda a UnoMattina- sono in forte aumento anche i casi di anoressia maschile, che rappresentano circa il 10% del totale”. La genesi dei Dca è spesso legata a uno sfondo depressivo che porta questi ragazzi a sviluppare “un pensiero rigido, che diventa ossessivo.

L’ossessività la ritroviamo infatti nell’immagine corporea- illustra Castelbianco- Così iniziano a non voler mangiare, la loro vulnerabilità aumenta e se non si riesce a intercettarla continua a crescere”. Per questo, a detta del direttore dell’IdO, “l’intervento va eseguito il prima possibile e ovviamente deve essere non solo sulla manifestazione – quindi sull’alimentazione – ma anche su ciò che impedisce il voler vivere”. Rimettere la prevenzione al centro come risposta ai disturbi dell’alimentazione è l’elemento corale che emerge dai tre intervistati a UnoMattina. “Il problema è che prima si riesce a intercettare questa patologia e prima si può riuscire a risolverla. Invece- illustra Mencarelli- molto spesso c’è una cronicizzazione, per cui quando i ragazzi arrivano alla cure ormai è troppo tardi”. – Diversi, dunque, gli approcci verso cui orientare le risposte ai disturbi alimentari.

Anzitutto, ricorda ancora la specialista, “bisogna affrontarli con un’equipe multidisciplinare, con personale preparato e dedicato”. E ancora, è necessario e urgente ovviare al fatto che “le strutture pubbliche sono ancora molto poche in Italia. È fondamentale che siano presenti nei territori: le residenze, i diurni e gli ambulatori”, aggiunge. Perchè siamo nel 2020 e “si continua a morire di disturbi del comportamento alimentare, e a registrare una carenza di offerta di cura nel nostro Paese”, gli fa eco Stefano Tavilla, presidente dell’associazione ‘Mi nutro di vità, oltre che padre di Giulia che 9 anni fa, all’età di 17 anni, si è spenta perchè malata di bulimia. “Giulia è morta in ‘lista d’attesà- spiega Tavilla- perchè attendeva l’accettazione in una struttura fuori regione”. Il problema principale in materia di questi disturbi, infatti, è proprio che “la cura ha costi altissimi e non conviene. Per fare un investimento sulle cure- continua il padre di Giulia- serve un investimento temporale.

La storia di Lorenzo viene dal Piemonte, dove mancano o non sono adeguati alcuni livelli di cura. Ci vuole una politica lungimirante, che guardi lontano e questo in Italia, purtroppo, è difficile. La cura non è omogenea su tutto il territorio, motivo per cui come associazioni – e siamo almeno 60 realtà – chiediamo che i disturbi del comportamento alimentare vengono scorporati dalle malattie psichiatriche all’interno dei Lea”. Affinché vengano considerate “malattie a sè stanti, di modo che ogni regione possa avere quel livello minimo di assistenza” che è necessario, spiega Tavilla. Diverse famiglie “peregrinano alla ricerca di cure. Il riconoscimento primario è fondamentale, e in Italia peraltro- conclude il presidente di ‘Mi nutro di vita- nel ciclo di studi universitari i disturbi alimentari non vengono ancora considerati. Così il medico di base o il pediatra non ha la preparazione adatta per poter riconoscere questo tipo di malattie”. O meglio, corregge Castelbianco: “I segni si vedono nell’età preadolescenziale ma di adolescenti che vanno dal pediatra ce ne sono pochi”.

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