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Quello che la storia (talvolta) non dice

Nel 2015, a un secolo esatto di distanza dalla dichiarazione di guerra all’Austria (23 maggio 1915), si scelse di ricordare l’inizio del Primo Conflitto Mondiale – costato oltre mezzo milione di morti all’Italia – con una lunga serie di cerimonie commemorative e la toccante esposizione, da Nord a Sud, di bandiere tricolori, messe a sventolare sulle facciate e sui pennoni dei numerosi Municipi del Belpaese. Ovunque, si badi bene, ma non in tutto lo Stivale. Alcuni Comuni, infatti, in particolare quelli del Trentino Alto Adige, scelsero di rinunciare al vessillo nazionale per un fatto molto semplice: cento anni fa non erano italiani, bensì parte integrante dell’impero austro-ungarico e dunque, di fatto, militarmente, schierati dall’altra parte.

A Vittorio Veneto, per capirci, teatro dell’ultima, decisiva battaglia del Regio Esercito (24 ottobre-4 novembre 1918), chi era nato a Trento, Bolzano o Vipiteno, ci sparava addosso e noi facevamo altrettanto con loro. Non erano, d’altronde, “austriaci” quei marinai friulani che la Kriegsmarine tentò, invano, di infiltrare nei porti italiani dell’Adriatico nel tentativo di carpire il segreto dei micidiali Mas (motoscafo armato silurante) della nostra Marina?
Insomma, proprio per questo, quando, sei anni fa, si trattò di commemorare un evento conclusosi vittoriosamente per l’esercito italiano, chi allora era “nemico”, chi allora era stato sotto le armi, innalzando però il drappo degli Asburgo, scelse di piangere sì i propri caduti ricordando i tragici fatti di un secolo fa, ma di non farlo sotto l’egida della bandiera bianca, rossa e verde.
Scelta opinabile? Mossa provocatoria? Fate voi.
Una cosa è certa: la storia non si cancella né può sparire sotto l’inchiostro di un trattato di pace o di un’annessione, per quanto questa possa apparire giusta ai posteri, perché “conquistata” sul campo. In fondo si chiedeva ai figli, ai nipoti ed ai pro nipoti di gente che aveva combattuto e magari era morta per l’imperatore Francesco Giuseppe, di fare festa con l’Italia, sventolando la stessa bandiera di quelli contro i quali, dal 1915 al 1918, i loro padri e i loro nonni avevano tenacemente combattuto e magari ci avevano pure rimesso la pelle!!

Non sarebbe stata discutibile o, per non dire, cinica, questa, come scelta? Innalzare una bandiera che, nell’imminenza dei fatti, non era stata la “loro” bandiera?
Perché sì, signori: sbaglia chi vede e legge i fatti di ieri con gli occhi di oggi. E magari si indigna pure. Certo, quei paesi oggi sono italiani e molti dei loro abitanti, nel frattempo, si sono contraddistinti, non solo sui campi di battaglia (pensiamo alla Seconda Guerra Mondiale), ma anche a livello sportivo, portando alto il nome dell’Italia nel mondo. Però il passato non muore. Quel passato, soprattutto. Ancora così vicino a noi, per quello che ha rappresentato e per come ha ridisegnato la mappa geografica dello Stivale, italianizzando e conglobando, talvolta anche forzatamente, nomi, toponomastica e usanze di chiara matrice teutonica. Semplicemente, si è evoluto, trascinandosi dietro il peso di ciò che è stato. Un peso talvolta scomodo, sempre pronto a venire fuori, alla prima, “spiacevole” occasione.

È accaduto anche da noi, giù, al Sud, nel 2011, quando è stato celebrato il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia e, come d’incanto, è tornato a spirare, forte, il vento dell’orgoglio neo-borbonico e del senso di appartenenza alla terra degli avi. Perché è successo? Semplice: perché per decenni si è preferito tacere su ciò che era stato, seppellendolo sotto fiumi di cronache e ricostruzioni non sempre aderenti alla realtà e quasi sempre “offensive” per un Meridione dipinto come arretrato, sotto-sviluppato, povero, semi-analfabeta, preda di una feroce monarchia liberticida e dunque da “liberare” e riscattare a tutti i costi. Risultato: Garibaldi, Vittorio Emanuele e Cavour trasformati in eroi, “Franceschiello” di Borbone ridotto a una specie di mezza macchietta. Per non dire del “brigantaggio”, relegato al rango di mero episodio malavitoso e delinquenziale e dunque da stroncare senza pietà.
Non sarebbe stato meglio raccontare alle nuove generazioni perché ed in che modo si era arrivati allo sfascio del Regno delle Due Sicilie e che quello che noi chiamiamo “Risorgimento” era stato, in realtà, un’operazione di conquista militare da parte di un Regno (quello dei Savoia) ai danni di un altro Regno (quello di Napoli), legittimamente presente sulla scena continentale da quasi un millennio? Una sorta di “anschluss” reso possibile grazie all’avallo dalle principali cancellerie europee ed al beneplacito della corona di Londra (la superpotenza di allora), che non esitò a far “scortare” dalle sue navi i piroscafi di Garibaldi nella celebre Spedizione dei Mille, lungo il tragitto alla volta della Sicilia, mettendoli così al riparo dalla flotta duosiciliana.

Quale “liberazione” è mai quella che viene decisa a colpi di assedi e bombarde e perché mai noi meridionali dovremmo sentirci “risorti”? Risorti da chi o da cosa? Gli assedi militari di Civitella del Tronto, Gaeta e Messina rappresentano, forse, esempi di “Risorgimento”, per come lo abbiamo appreso sui banchi di scuola? O non sono chiari episodi di resistenza nei confronti di un’invasione? Ed i nostri trisavoli, allora? Quelli che scelsero di combattere (e morire) al fianco dell’ultimo re Borbone o di continuarne la lotta, dandosi alla macchia tra i boschi e le montagne di Campania e Basilicata, erano forse dei folli che non volevano… “risorgere” o piuttosto gente innamorata del proprio campanile, della propria indipendenza e della propria bandiera? Costoro, forse, ad ogni anniversario dell’unità, avrebbero dovuto sventolare felici il vessillo tricolore con il simbolo dei Savoia al centro?

Insomma: lungi da noi rispolverare, per l’ennesima volta, l’antica e mai risolta questione dell’unità nazionale. Qui non si tratta di rifondare il Regno delle Due Sicilie, operazione anacronistica nei tempi in cui si parla di unità europea. Assolutamente. Ma di riscrivere la storia ripartendo da dati e circostanze oggettive, questo sì. Si può e si deve fare, senza timore alcuno. Perché, non ci stancheremo mai di dirlo, questo Paese attende ancora di essere realmente unificato.

Da Nord a Sud, dove, prima ancora che Italiani, continuiamo ad essere napoletani, siciliani, calabresi, romani, toscani, lombardi, veneti, piemontesi, ecc. cc ecc. In altre parole: fino a quando non faremo i conti con il nostro passato, fino a quando non impareremo a studiare i fatti che ci hanno preceduti per ciò che realmente sono stati, mettendo da parte odi, ideologie e “paraocchi”, fino a quando non troveremo il coraggio di strappare le tante, troppe pezze a colore messe sui libri per cancellare certe verità scomode, l’Italia e gli Italiani non potranno mai avere un futuro degno di questo nome. E il peso scomodo del passato, quello con il quale proprio non vogliamo misurarci e che sovente tendiamo a cancellare, tornerà a fare capolino ricordandoci chi siamo e soprattutto, chi siamo stati.


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