Partiamo dall’acronico: Pnrr. Di sicuro ne avrete sentito parlare in questi giorni. Sta per “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” e spesso lo si è sentito chiamare anche con un altro nome: Recovery plan (in italiano: “piano di recupero). In parole più semplici: si tratta del programma di investimenti che ciascun Paese membro deve presentare a Bruxelles, per poter accedere ai fondi del Next Generation Eu, il maxi strumento da 750 miliardi di euro messo a punto dall’Europa per fronteggiare la crisi provocata dal Covid-19. Praticamente, è un piano in cui l’Italia elenca, in maniera sistematica e dettagliata, tutte le varie voci di spesa e, soprattutto, in che modo ha intenzione di spendere la montagna di soldi che incasserà dalla Ue. Soldi, si badi bene, che ci accingiamo a prendere in prestito e che dovranno essere restituiti entro il 2058. Ora vi starete giustamente chiedendo a quanto ammonta tutto questo ben di Dio: è presto detto. Di quella grossa torta, al nostro Paese spettano 191,5 miliardi di euro. Una cifra che, però, tra piano complementare aggiuntivo (annunciato dal premier Draghi nel suo discorso alle Camere) più altre voci che non sto qui a riepilogare (ad esempio il reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione), potrebbe lievitare fino alla soglia dei 248 miliardi di euro! Un dato colossale se si pensa, solo a mo’ di paragone, che la già eccezionale (in termini di risorse impegnate) manovra finanziaria 2021 “disegnata” dal disciolto governo Conte, ammontava a 40 miliardi. Il che fa del Recovery il programma di investimenti più importante di tutta la storia repubblicana, insieme con il piano Marshall post bellico. Ci sta, dunque, che di fronte a questi numeri, qualcuno inizi anche a porsi delle domande circa la maniera in cui verrà effettivamente utilizzata l’enorme somma messa a disposizione dell’Italia dalla Ue. E lo diciamo con ancora ben impressa negli occhi la grande distesa di opere pubbliche rimaste incompiute nei tanti, troppi paesi della Penisola: palazzetti, ospedali, scuole, autostrade, viadotti. Scheletri, cantieri aperti, lasciati lì a “marcire” per decenni. Magari finanziati proprio con i soldi della comunità europea ma poi mai ultimati per mille ed inenarrabili motivi: dai classici fusti velenosi spuntati durante lo scavo delle fondamenta (e poi oggetto di contenziosi infiniti circa la loro rimozione), all’improvviso esaurimento dei fondi frutto di sovraggiunte variazioni in corso d’opera del progetto iniziale (oppure dispersi in chissà quali rivoli di illegalità).
Quelli della mia generazione, nati e cresciuti all’ombra del Vesuvio, ricordano benissimo la vicenda dell’ospedale di Boscotrecase “Sant’Anna e Maria SS. della Neve”, la cui prima pietra, pensate, fu posata nel 1966 (il progetto originario risaliva addirittura alla fine degli anni ’50!!) salvo poi essere inaugurato nel 2006 (!), dopo un salto temporale durato la bellezza di…40 anni!! E che dire del mai ultimato palazzetto dello Sport dell’Is Cesaro Vesevus a Torre Annunziata, le cui rovine campeggiano, da quasi mezzo secolo, a pochi passi dalla stazione della Circumvesuviana? Ormai è diventato parte integrante del paesaggio urbano di Oplonti (la cui celebre villa, va detto, dista poche centinaia di metri da quel posto). Credeteci: potremmo proseguire veramente all’infinito, perché proprio non c’è un angolo del Belpaese, dal profondo Nord fino alla Sicilia, che non abbia, nel proprio “arredo”, un mostro in cemento armato a simboleggiare l’inefficienza e gli sprechi della pubblica amministrazione.
Pensate: numeri alla mano, si calcola che in Italia ci siano circa 750 opere bloccate o mai ultimate, pari a oltre 60 miliardi di euro di investimenti (o dovremmo dire sprechi, visto che non sono mai state completate?). Fuor di metafora: ma perché si è detto tutto questo e che c’entrano le incompiute italiane con il Recovery? E’ presto detto.
Nel suo intervento alle Camere, il presidente del Consiglio ha spiegato che la maggior parte dei fondi del piano di recupero sarà utilizzata per lo “sviluppo di una rete di infrastrutture di trasporto moderna, digitale, sostenibile e interconnessa”. Nello specifico, l’ex numero uno della Bce ha parlato di “ammodernamento e potenziamento della rete ferroviaria”. In particolare, è stato annunciato l’allungamento dell’alta velocità da Salerno fino a Reggio Calabria.
Il premier ha anche detto che i fondi del Pnrr saranno utilizzati per finanziare “interventi per la digitalizzazione del sistema della logistica”, oltre che “per migliorare la sicurezza di ponti e viadotti”, e per “innalzare la competitività, la capacità e la produttività dei porti italiani”. Ancora, l’inquilino di palazzo Chigi ha sottolineato che “più del 50 per cento degli investimenti in infrastrutture” sarà diretto al Mezzogiorno: “non è questione di campanili, se cresce il Sud, cresce anche l’Italia” ha commentato il premier dicendosi fiducioso circa l’attuazione del programma. Che dire? Belle parole le sue. Sacrosante. Da applausi a scena aperta. Perché sì, l’occhio di riguardo per il Sud, gli investimenti sulle infrastrutture, la riforma della giustizia, quella del fisco, l’incentivo all’imprenditoria rosa, la transizione ecologica (di cui pure si parla nel programma), sono tutte riforme epocali che, se realizzate, promettono effettivamente di cambiare per sempre il volto dello Stivale. In bene, s’intende.
Parliamoci chiaro: mai prima d’ora l’Italia, tranne gli anni dell’immediato dopo guerra, ha avuto un’occasione del genere per provare a risalire la china ed a saldare, finalmente, quella frattura che ancora oggi, a più di 160 anni dall’Unità nazionale, divide il Paese in due. Il quesito che però tutti quanti noi ci poniamo di fronte a questa possibilità storica, è la seguente: riusciremo ad impiegare bene tutti questi soldi? Riusciremo ad ultimare tutte le opere previste nel Recovery? Saremo in grado di trasformare questo colossale prestito in “debito buono”, destinato, cioè, negli anni a venire, a dare slancio e risultati alla crescita socio-economica del Paese? O rischiamo di ritrovarci tra le mani l’ennesimo libro dei sogni che in tanti, da qui a un decennio, magari, ricorderemo con nostalgia come l’ennesima occasione sprecata?
Draghi ha assicurato che, per quanto concerne il Pnrr, l’opera di monitoraggio, controllo e rendicontazione, oltre che i contatti con la Commissione Europea, saranno affidati al Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). Benissimo. Ma una volta che i fondi saranno stati stanziati ed i vari progetti appaltati, chi garantirà, sui territori, circa la loro reale messa in opera? Chi assicurerà, insomma, che quei soldi saranno realmente utilizzati per gli scopi previsti e non resteranno invece riposti in qualche cassetto, come tante volte accaduto in passato?
Chi ci assicurerà che strade, ponti e ferrovie, verranno effettivamente realizzati, così come previsto nel programma di investimenti che Roma si accinge a presentare a Bruxelles?
D’accordo: in casi del genere non ci vogliono prefiche o uccelli del malaugurio. Uno deve anche decidersi ad essere “ottimista”, così come ha sostenuto Draghi alle Camere, riponendo la propria fiducia sul popolo italiano. Però nel Paese di Pulcinella e di Tangentopoli, dove l’incompiuta è di casa e la Salerno-Reggio Calabria è quasi un istituzione del “cosa farò da grande”, ci sta che qualcuno un po’ di timori, sotto sotto, li covi. O no? Ecco: al Mef vorremmo suggerire di aprire non uno, ma tutti e due gli occhi ed al presidente del Consiglio di farsi realmente garante del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dal momento che la governance non sarà affidata solo ai ministeri ma coinvolgerà anche gli enti locali.
Bisogna muoversi in fretta ed individuare, in loco, cabine di regia e personalità (governatori, sindaci) di sicuro affidamento e realmente in grado di monitorare, passo passo, che tutto si svolga secondo i canoni della regolarità. Lo ribadiamo: ci troviamo di fronte alla più grande opportunità che sia stata data al nostro Paese, dal 1946 ad oggi, anche in termini di lavoro ed occupazione (pensate a quante aziende potranno essere coinvolte). Più che un piano che mira al rilancio economico, il Recovery promette, dunque, di essere una vera e propria rivoluzione. Ma solo a patto che siano definite norme “d’ingaggio” chiare, incontrovertibili e semplici, oltre che precise e rigorose (il modello Genova, con la “ricostruzione lampo” del ponte, dimostra che laddove si vuole, è possibile realizzare un’opera prima del…giudizio universale!). E che chi sbaglia, paghi e si tolga dalla circolazione, senza inutili perdite di tempo.
Insomma, affinché tutto vada bene, occorre porre un argine ai “furbetti” di turno ma anche abbattere, una volta e per tutte, tutte quelle pastoie burocratiche che sovente si sono rivelate trappole mortali per tante, troppe realtà imprenditoriali oneste. Bisogna vigilare non una, ma centomila volte sul rischio di infiltrazioni da parte della malavita organizzata, sicuramente già pronta a tuffarsi a capofitto in un maxi-affare del genere. Bisogna vigilare, se occorre, anche…su colui che vigila. Insomma: teniamo gli occhi aperti. Cittadini, istituzioni, reti territoriali, associazioni di categoria, mondo delle imprese, sindacati, consumatori. Tutti, indistintamente. Perché è del futuro di tutti che stiamo parlando. Il Recovery può realmente trasformarsi nell’occasione del secolo!! Evitiamo pertanto di svegliarci, un domani, con davanti lo spettro di tante nuove ed eterne incompiute in salsa tricolore.
Di strade che non portano da nessuna parte, palazzetti in cui non si è mai giocato una partita, plessi scolastici in cui non è mai suonata una campanella e tralicci di viadotti che non sono mai stati gettati, ne abbiamo piene le scatole!!