Alzi la mano chi non ha mai visto, almeno una volta nella vita, una cartolina del Golfo di Napoli. Bene. Date un’occhiata al versante meridionale: quello che “pende” sulle coste di Castellammare e Torre Annunziata. Avete notato quello scoglio? Un tempo era noto come “Petra Herculis”, ma tutti lo conoscono come “Scoglio di Rovigliano” ed è uno dei luoghi più celebri di questo lembo estremo di provincia partenopea, quasi una sorta di “skyline” del litorale stabiese-oplontino. Pensate: dal 1925 è considerato un bene da tutelare, eppure langue in preda ai marosi ed alla rovina più totale, ennesimo esempio di come si possa fare scempio del patrimonio culturale italiano. Un emblema, insomma, delle tante, troppe occasioni “mancate” di un vero e proprio rilancio turistico della Campania Felix.
La leggenda narra che fu Ercole, di ritorno dalla Spagna, reduce dalla decima delle sue dodici fatiche, a “crearlo”. Come fece? Semplice: staccò la cima del vicino monte Faito e la scagliò in mare. Fin qui il mito. Vero solo a metà. Perché sì, geologicamente parlando, Rovigliano è in qualche modo veramente legato al Faito, nel senso che è composto della stessa natura (rocce sedimentarie) di quel monte della catena dei Lattari, ma non è affatto un grosso sasso caduto in mare, bensì parte di un’antica montagna sprofondata negli abissi e di cui, dunque, rappresenta la vetta più elevata. E’ molto probabile che i primi coloni greci che si trovarono ad “orbitare” da queste parti, utilizzassero quell’isolotto come sorta di “avamposto” su cui fermarsi per prendere contatti con le popolazioni dell’entroterra campano, un po’ come accadde, sull’altro versante del Golfo, con Ischia e l’isolotto di Megaride.
A quei tempi (l’astro di Roma non era ancora sorto), Rovigliano si trovava a quasi 8 chilometri di distanza dalla linea di costa. Una distanza, per così dire, di sicurezza. Da qui, dunque, un primo, probabile impiego dello scoglio roccioso come base strategica da cui muoversi per le prime temerarie spedizioni dei colonizzatori sulla terraferma. Secoli di eruzioni e sedimentazioni vulcaniche, oltre ai detriti trascinati in mare dal Sarno, hanno progressivamente fatto ridurre la distanza della “Petra Herculis” dal litorale ed oggi realmente si può raggiungere questo lembo di terra bagnato dalle onde, con estrema facilità.
In epoca romana, Rovigliano ospitò un tempio dedicato al dio Ercole, di cui oggi rimane piccola traccia nei resti di un muro di pietra realizzato in opus reticolatum. Perché oggi si chiami proprio così, resta un mezzo mistero ancora da svelare.
Il primo documento che testimonia l’attuale nome risale, infatti, all’epoca (XIII secolo) di papa Innocenzo III, il quale, in una bolla, parlava di una località denominata “Rubellanium”. Gli archeologi sono divisi. E’ probabile che quel toponimo derivi dal cognome di un’antica gens romana, i Rubilia, oppure da un tale console Rubelio, che forse possedette la Petra Herculis. O ancora dalla “robilia”, vale a dire il nome latino dato a un certo tipo di pianta leguminosa, simile alle “cicerchie”, che, a quei tempi, cresceva abbondante sui suoli dell’ager stabiano. Ora, al di là dell’origine del nome, è straordinario pensare che questo isolotto, il più piccolo tra le perle del Golfo, abbia visto veramente di tutto negli oltre suoi due millenni di esistenza!!
Nel corso dei secoli, una volta caduto l’impero romano, Rovigliano è passato, infatti, ad essere un’abitazione privata (nel VI secolo), poi un luogo di accoglienza dedicato a giovani donne votate alla vita monastica (IX secolo). E poi, ancora, la sede di un monastero benedettino, con tanto di chiesa, dedicato a San Michele Arcangelo che, nel 1220, fu autorizzato da Papa Onofrio III ad adottare la Regola Forense.
I fasti di quel convento andarono via via, decadendo anche in seguito alle ripetute incursioni dei pirati saraceni che, per la verità, si erano già fatti vivi sulle coste campane, con raid improvvisi e sanguinari, fin dall’Alto Medioevo. Di una di queste incursioni, parla un certo frate Simone nel suo “Chronicon Casinense” risalente al IX secolo. E in una di queste storie si cita proprio Rovigliano ai tempi in cui i Longobardi erano signori del Sud Italia e Castellammare era sorvegliata dal Conte Orso, marito di donna Fulgida e padre di Miroaldo. Un giorno i Saraceni attaccarono il litorale stabiese. Orso e i suoi soldati si batterono come leoni e la loro estrema resistenza finì proprio sulle pendici dello Scoglio di Rovigliano dove il conte, fu sconfitto ed impiccato dagli aggressori i quali fecero schiavo il figlio Miroaldo e colpirono la povera Fulgida, la quale, nel tentativo di salvare il marito, si era frapposto tra lui e la lancia scagliata da un soldato saraceno. La leggenda vuole che la donna non morì per la ferita, ma perse “solo” i sensi. Al suo risveglio si ritrovò in mezzo ai soldati morti, al marito impiccato e senza più il figlio. Ora, cosa ne fu di lei, nessuno lo sa, ma a voler dar retta alla leggenda, sembra che il suo fantasma non se ne sia mai andato via da Rovigliano dove, ancora oggi, aleggia, ricordando e piange la sua amata famiglia distrutta.
Il racconto di fra’ Simone ci fa comprendere quanto fossero difficili quei tempi e soprattutto perché Rovigliano smise, un bel giorno, di ospitare un convento religioso. Proprio per difendersi dai blitz moreschi, infatti, nel XVI secolo lo scoglio fu trasformato, per volere del vicerè di Spagna, in una potente fortezza militare, dotata di un’alta torre quadrangolare, i cui resti – al pari delle tante altre “sentinelle di pietra” edificate, nel corso dei secoli, lungo le coste dell’antico Regno – sono ancora oggi visibili.
Nel 1703, l’isolotto fu ulteriormente “blindato” con l’edificazione di un fortino dotato di trenta batterie. Poi, nel 1799 fu trasformato in prigione. Infine, dopo l’Unità d’Italia, passò al demanio per poi essere successivamente venduto ai privati. Da allora, tranne un ultimo tentativo (purtroppo andato in fumo) dell’imprenditore Antonio Brigante (nel 1931) di trasformare l’antico tempio di Ercole in un centro turistico, con annesso albergo e ristorante, non ci sono stati più altri tentativi di riqualificare un monumento di storia patria che pure avrebbe meritato e ancora meriterebbe ben altra sorte. Perché? E’ la domanda che risuona ancora oggi. Perché, considerando che, fin dal 1925, la “Petra Herculis” è considerato un “bene storico” da tutelare? Un riconoscimento, quest’ultimo, che quasi sa di beffa dal momento che da quasi cento anni, tutto giace nell’abbandono più totale.
Eppure le idee per un riutilizzo del rudere millenario, finora, non sono mancate. Lo stesso Fai (Fondoambiente) ha inserito la Petra Herculis nella campagna dei “luoghi del cuore”, provvedendo a censirlo come uno dei “luoghi italiani da non dimenticare”. Ancora, nel 1993 il Consorzio di bonifica del Sarno ha proposto di restaurare l’antica torre e gli altri edifici, per potervi ospitare una stazione di monitoraggio dell’inquinamento delle acque. Quale altro posto migliore per un compito del genere, vista l’estrema vicinanza del fiume-cloaca? Ma perché, ci chiediamo noi, non limitarsi semplicemente a riqualificare un monumento nazionale su cui si alternano e si incontrano, sovrapponendosi, gli uni agli altri, secoli di storia ed epoche diverse? Perché non ospitarvi, ad esempio, un museo dell’arte marinara in grado di unire, in un solo abbraccio, la storia di Torre Annunziata e Castellammare di Stabia, lungo i cui confini immaginari questo scoglio svetta, resistendo stoicamente ai morsi del tempo? Quale altra Nazione al mondo potrebbe offrire a turisti e visitatori un sito museale in mezzo al mare, da raggiungere nella più caratteristica e affascinante delle “promenade marine”, magari dopo essersi goduti il classico “grand tour” nelle vicine Pompei, Stabia, Ercolano ed Oplonti? Ma soprattutto perché solo in Italia anche la più naturale e semplice delle idee deve diventare il più grosso, difficile, assurdo ed irrealizzabile dei sogni?