A scanso di equivoci, è bene dirlo subito: questa Super League nata e poi subito abortita, non ci piace per niente. Facciamo fatica ad immaginarci Arsenal, Manchester City, Manchester United, Liverpool, Tottenham, Chelsea (per l’ Inghilterra), Inter, Juve, Milan (per l’Italia), Atletico Madrid, Barcellona e Real Madrid (per la Spagna), sfidarsi tra loro, vita natural durante, in un torneo calcistico, un po’ sulla stessa falsariga di quanto accade nel basket americano (Nba). Tutti gli anni sempre le stesse identiche sfide. Uno potrebbe anche capirlo all’inizio, con la novità della nuova competizione. Ma alla lunga, questo ripetersi ad oltranza di match incrociati, rischierebbe di diventare un tantinello noioso, non trovate? Oddio, magari ci sbagliamo clamorosamente e stiamo prendendo una topica di quelle grosse, chi può dirlo? Ma si sa, noi italiani, in fatto di pallone, siamo un pochettino nostalgici. Siamo rimasti al mitico Sandro Ciotti del “clamoroso al Cibali”, alla straordinaria cavalcata tricolore del Verona di Bagnoli, al Napoli di “re Diego” che matava le grandi del Nord. O, in tempi più recenti, all’impresa del Benevento, capace di stangare, a domicilio, Milan e Juventus. E’ questo il pallone che ci piace, quello dei “campanili”, quello dei derby della terza serie e delle storiche promozioni di Juve Stabia e Savoia in serie B. Uno sport anche “pane e salame”: fatto per poveri, oltre che per ricchi e blasonati. Uno sport genuino, anche tosto se vogliamo, talvolta ingiusto, come solo la vita sa essere, per il quale abbiamo riso e pianto tante volte. Però, però…neanche possiamo fare finta che non sia accaduto nulla in questi ultimi trent’anni, e magari nasconderci dietro il più classico dei diti.
Diciamocela con somma franchezza: il calcio oggi è cambiato, drasticamente. Non è più quello di Paolo Rossi e Savoldi, Rivera e Mazzola, Maradona e Van Basten. Colpa dei diritti televisivi? Colpa della sentenza Bosman? Colpa del financial far play? Colpa delle plusvalenze? Colpa di un’Uefa che da un lato vede e dall’altro “ceca”? Non spetta a noi dire come e perché quel calcio che tanto abbiamo amato, oggi sia praticamente scomparso. Ma di sicuro non occorre la sfera di cristallo per vedere ciò che è palese ed evidente sotto gli occhi di tutti: quel calcio, semplicemente, non esiste più. E’ morto.
Negli anni ’70 con i soli incassi del botteghino, le società riuscivano a pagare gli stipendi dei propri tesserati ed anche a ricavarci qualche guadagno extra. Oggi, al massimo – se va bene – si saldano un paio di mensilità al solito top player di turno. Il resto son tutti debiti che vanno ad accumularsi. E che debiti! Un autentico sprofondo rosso che sta rendendo addirittura poco redditizio se non sconveniente investire nel “football”.
Recentemente la Gazzetta dello Sport ha analizzato le passività dei 12 top club fondatori della Super League. Ebbene, ne sono uscite fuori cifre che avrebbero portato al fallimento, nel giro di ventiquattr’ore, anche la più intraprendente ed innovativa delle attività imprenditoriali! Pensate, in Inghilterra, Chelsea e Tottenham hanno un deficit, rispettivamente, di 1.510 e 1.280 milioni di euro. In Spagna, il Barcellona ha un rosso superiore al miliardo di euro con il Real che segue di poco sotto, mentre l’Atletico Madrid ha un “buco” di quasi mezzo miliardo. In Italia, quella messa meglio è il Milan che ha “solo” 151,8 milioni di passivo. Quella messa peggio, è l’Inter, con 630 milioni di euro di debiti seguita a ruota dalla Juve che ha un passivo di poco superiore ai 450 milioni.
Insomma, volendo fare un po’ i conti in tasca ai 12 “ribelli”, è proprio il caso di dire che sono letteralmente sommersi da un mare di debiti: circa 6 miliardi di euro in totale, per la precisione. Un quadro drammatico, purtroppo non ancora definitivo e sul quale peserà non poco anche il lascito della pandemia.
Attenzione. E’ bene ribadire – non possiamo fare finta che ciò non sia vero – che stiamo parlando pur sempre dei principali club europei della “pelota”. Compagini che di solito “ospitano” il gotha del calcio mondiale (da Messi a Ronaldo, da Ibrahimovic a Lukaku, da Salah a De Bruyne, da Suarez a Benzema per intenderci) e che più di tutte forniscono la “materia prima” alle nazionali. Squadre che vantano il più alto numero di tifosi sulla faccia della terra e dunque un seguito vastissimo, al mondo. Il che, in termini di diritti televisivi, significa tanta, ma veramente tanta roba. Non è azzardato, insomma, dire che attorno a questi colossi si regga la maggior parte del fenomeno calcio, anche e soprattutto a livello di audience e fatturato. D’altronde, prima che il Covid scombussolasse le nostre vite, la classifica dei club più “profittevoli” (riferita ai ricavi della stagione 2018-19) fotografata dallo studio Deloitte Football Money League, parlava chiaro: il più ricco era il Barcellona (840,8 milioni di euro di ricavi), seguito da Real Madrid (757,3 milioni) e Manchester United (711,5 milioni) con ben otto club di Premier piazzati nella top 20 ed 11 tra i primi 30! Sarà un caso che sei di quei club britannici figurassero anche nella lista dei soci fondatori della Super League?
Ora, detto ciò: di fronte alla prospettiva di finire schiacciati, inesorabilmente, dalla montagna di debito fin qui accumulata, con tutto quel che ne sarebbe derivato da un punto di vista economico, ma anche sociale e politico (il calcio non è solo uno sport, altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo sulla questione Super League si siano schierati, ciascuno con la propria visione, anche premier – dal nostro Mario Draghi al britannico Boris Johnson – e rappresentanti delle istituzioni), ecco materializzarsi il clamoroso “strappo”, con i 12 che hanno tentato di issarsi su quella che Agnelli a Perez hanno identificato come una sorta di scialuppa di salvataggio a bordo della quale balzare per non colare a picco. Un nuovo torneo internazionale, capace di generare un fatturato di 5/6 miliardi ogni anno, il doppio di quelli attualmente prodotti dall’attuale format della Champions League (e dove all’ultimo classificato sarebbe spettato un premio tre volte superiore rispetto a quello che viene corrisposto al vincitore della coppa dalle grandi orecchie!). Con la possibilità, badate bene, di poter gestire direttamente da sé tutta quella mole di denaro, senza più dunque l’intermediazione di un organismo come l’Uefa, rivelatosi, allo stato, sordo ai richiami (ed alle esigenze) dei cosiddetti top club (ma non solo di quelli).
Come dimenticare, poi, che il partner dell’operazione sarebbe stato un colosso bancario del calibro di JP Morgan, pronto a garantire 3,5 miliardi (una tantum) da destinare al finanziamento dei danni da Covid e ad anticipare 3 miliardi dei futuri ricavi?
Tradotto in parole più semplici, tutto questo avrebbe rappresentato non una boccata, ma una valanga d’ossigeno gettata sui conti asfittici di società che, da sole, valgono più di un terzo del fatturato di tutte quante le altre società calcistiche messe assieme. Sinceramente (tifo a parte): voi cosa avreste fatto al loro posto? Continuare a giocare le competizioni europee, secondo il format attuale, accumulando altri debiti, col rischio di sparire, oppure provare a forzare la mano al sistema?
D’accordo: la scelta della Super League è un discorso altamente egoistico. Nessuno lo nega. E’ il definitivo affossamento del calcio per come lo abbiamo conosciuto ed apprezzato fino a non molto tempo fa. Da un punto di vista etico rappresenta una gran vigliaccata nei confronti dei club più piccoli e virtuosi. Ma, che ci piaccia o no, si sapeva fin dall’inizio che a questo saremmo arrivati quando, agli albori degli anni Novanta, fu imboccata prima timidamente e poi, in maniera sempre più impetuosa, la strada dei diritti tv: la trasformazione del calcio in business, un marchio da vendere e contrattare, neanche ci trovassimo al mercato! Come siamo arrivati, oggi, a vedere partite spalmate nel corso della settimana, con anticipi, posticipi, lounch match, coppe europee dal martedì al giovedì? E’ semplicemente perché tutto si compra, tutto si vende. Anche il pallone, sì, diventato un affare commerciale sul quale investire forte.
Parliamoci chiaro: le squadre oggi non sono più solo “colori e passione”, ma anche aziende, talvolta quotate in Borsa, con stadi di loro proprietà; gli stessi calciatori non sono più “semplici” atleti, ma imprenditori di se stessi che, a loro volta, generano fatturato e procurano lavoro a chi ne gestisce l’immagine. Insomma: il calcio è diventato una grande “fabbrica”, con la differenza però che ha smesso da un pezzo di realizzare sogni. I tempi di “90esimo Minuto” sono finiti da una vita. Con la Super League si è abbozzato, piuttosto maldestramente, il tentativo di varare un nuovo e più avveniristico modello di football. Non è piaciuto praticamente a nessuno. Tuttavia, è stata questa la naturale evoluzione della spettacolarizzazione di massa (o se preferite “globalizzazione”) del soccer, trasformatosi, nel corso degli anni, sempre più in uno show (e sempre meno in uno sport) da vendere al miglior offerente.
Cos’altro potevamo aspettarci allora? Avremmo dovuto pensarci prima, quando gli stipendi dei calciatori iniziavano a lievitare oltre misura, quando i petroldollari iniziavano a drogare il calciomercato, scavando solchi sempre più profondi tra società di prima e seconda fascia. Oggi con chi ce la prendiamo se il calcio ha smesso di essere favola ed è diventato solo business e marketing?
Lo ribadiamo: tutti quanti avremmo preferito assistere, ogni anno, al miracolo Leicester, ma più questo pallone va avanti e meno spazio ci sarà per chi non è disposto a mettere mano al portafogli. Insomma: siamo ormai dentro la professione del pallone, non più nella passione. Ingiusto? Sbagliato? Anti-etico? Assolutamente si, senza se e senza ma. Ma questo, che piaccia o non piaccia, è oggi il pallone e questo è il lascito che stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni. Quello che ogni anno vede fallire decine di piccole società (ma anche qualcuna più grande), surclassate dai costi stellari di gestione di rose e campionati.
Se qualcuno ha la bacchetta magica, la utilizzi subito e ci riconsegni, seduta stante, tutto il “calcio minuto per minuto” e le partite solo di domenica alle 15. Ma questo significherebbe la fine delle pay tv e di tutto quello che il sistema ha costruito attorno al “marchio calcio” negli ultimi trent’anni. Compresi i giochi per la play ed i campioni che promuovono con il loro volto, marchi ed aziende sui social network. Insomma: un nostalgico ma impossibile salto all’indietro.
La getto lì, così. Magari l’idea della Super League è nata veramente come mera provocazione. Magari era realmente solo un’idea da rimodellare, come hanno poi tentato di spiegare i 12 ribelli, mentre, uno ad uno, si sfilavano dal progetto. Magari, il loro, è stato veramente solo un modo per provare a stanare le istituzioni del calcio mondiale, così da costringerle a scendere a patti con i club ed a riformulare gli attuali format delle coppe europee e dei campionati nazionali: “Ehi, di questo passo affondiamo tutti quanti!” potrebbe essere stato il loro disperato messaggio. Magari, perché no, la nuova Super League potrebbe diventare la vecchia Champions rimodulata, rinnovata e ristrutturata. Magari sarà questa l’occasione per discutere se sia il caso di porre o meno un limite ai salari dei calciatori. Magari i Comuni scenderanno più facilmente a patti con le società, concedendo loro gli spazi per costruirsi stadi di proprietà. Magari Jp Morgan potrà essere coinvolta e convinta a salvare questo di calcio e non quello che ancora non c’è.
Insomma, acclarato che indietro è praticamente impossibile tornare e che la Super League è morta prima ancora di nascere, al di là della nostalgia: ma se provassimo a vedere questo “strappo” come una grande occasione per sedersi attorno ad un tavolo e riformare, una volta e per tutte, questo benedetto pallone?